Terraferma - Emanuele Crialese
Terraferma - Emanuele Crialese - 2011 - 88'
Terraferma, ma lo stesso Crialese, hanno ormai visibilità a sufficienza e che l'industria punti su film così, soprattutto nella stagione dove sono previsti i maggiori incassi, è una bella cosa. Ti fa scappare un sorriso. Questa è la prima considerazione che mi viene da fare.
Terraferma, ma lo stesso Crialese, hanno ormai visibilità a sufficienza e che l'industria punti su film così, soprattutto nella stagione dove sono previsti i maggiori incassi, è una bella cosa. Ti fa scappare un sorriso. Questa è la prima considerazione che mi viene da fare.
Se si esclude il primo film “Once we were strangers” (1997), che è in effetti piuttosto malriuscito, e che però sembra più un avvicinamento al cinema, una presa di confidenza, che altro; nei successivi tre film Crialese sembra rivendicare uno spazio e una distanza, anche se con risultati ovviamente diversi. Lo spazio è quello abitato da un'umanità isolata, geograficamente e culturalmente, segnato dalla distanza con il mondo diverso da sé, in Respiro inteso culturalmente, in NuovoMondo in senso storico, nonostante e soprattutto per gli inserti fantastici; Terraferma esplora la distanza in senso politico e trova purtroppo i limiti, temo autoriali, della scelta. Chi ha parlato di trilogia temo si sia fatto prendere la mano; parlare sempre di Sicilia non significa necessariamente legare i tre film così stretti l'uno all'altro. NuovoMondo e Once we were strangers sono per esempio molto più simili nelle intenzioni di quanto non lo siano NuovoMondo e Terraferma, più legati dall'esigenza politica di raccontare un cambiamento, quanto in atto, quanto già accaduto, non si capisce bene, per fortuna. Terraferma e NuovoMondo sarebbero invece parenti stretti di un documentario, progettato ma ancora mai realizzato, su Ellis Island e sul progetto di gestione dei flussi migratori negli Stati Uniti.
Crialese è un emotivo del cinema, non un analista e i punti deboli di Terraferma sono proprio quelli in cui si propone di analizzare i flussi migratori. Lui stesso rifiuta l'idea di aver fatto un film politico, preferirebbe che il film fosse visto come un tentativo di raccontare una storia, con lo stile che gli è proprio. Sono vere entrambe le cose; l'equilibrio del resto quasi sempre funziona bene. Ma la parte politica c'è, sarebbe forte, e invece è la più la lenta. Forse solo perché Crialese non ha ancora la maturità necessaria per gestirla. Funziona molto meglio quando si rivolge ancora alla storia, e infatti la scena della riunione dei pescatori, rischiosissima perché fortemente anacronistica, invece regge dall'inizio alla fine ed è del tutto funzionale, addirittura potrebbe essere estrapolata dal film e funzionare lo stesso. Bisogna riconoscere in ogni caso il coraggio dell'ambizione e la forza di evitare quasi sempre la retorica. Non era per niente facile, e dev'essere stato molto difficile lavorare sul tema con i pescatori del posto e con Timnit T., la donna africana che viene accolta e fatta partorire, al suo primo e probabilmente ultimo film, e che ha vissuto realmente uno sbarco in Sicilia in cui sono morti praticamente tutti. Le scene in cui è presente risentono di questa pesantezza esistenziale, non potrebbe essere diversamente.
Gli altri attori brillano luce in ogni inquadratura, con la saltuaria eccezione di Fiorello, che ce la mette tutta ma proprio non riesce a far dimenticare la televisione. Non che sia male, ma dovrebbe essere un fenomeno per riuscire nell'impresa di mescolarsi e non lo è. Crialese in questo comunque è davvero un maestro; riesce a trovare le facce più giuste per tutti i personaggi, anche per quelli che sembrano meno importanti. I ragazzi in vacanza sono perfetti per esempio, come tutti i pescatori.
Ci sarà chi inorridirà alle scene più sognanti, che invece sono la forza del film, anche quando sono forzate. Il tuffo dalla barca con maracaibo, gli africani che si aggrappano alla barca come zombi, i loro cadaveri, l'esplorazione di tutto quello che si è perso a mare. È proprio in questo senso che bisogna osare, fare dei documentari immaginari, riportare le immagini in primo piano, usare la fotografia in senso personale e non ripetitivo. In questo Terraferma trova le sue qualità migliori.
La scelta di non usare le solite canzoni invasive non è originale, ma è perfetta, coraggiosa. Maracaibo rompe tutto e sembra essere stata scritta apposta e nello stesso tempo ci ricorda il peggio di tutte le estati. Non fa ridere, non fa ridere il gallo sul costume di Fiorello e tutto sembra possibile.
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