Mandorle dolci e mandorle amare
Mi
sono messo a pregare, cosa dovevo fare! Ero sconvolto, pensavo di
morire. O di essere impazzito.
Di solito vengono loro a chiamarmi, la mattina alle sei, Carmela davanti e Antonio indietro. Antonio cammina male, glielo dico sempre che deve dimagrire, glielo dicevo sempre, povero Antonio. La faccia, la faccia, Gesù santo, Gesù, la faccia, non c’era più. I vermi l’avevano mangiata tutta. Non ce la faccio. Carmela lo stesso, ma c’era un corvo con le ali aperte proprio sopra il suo viso e ho potuto vederlo solo dopo. Il negozio era pieno di corvi. E di vermi. E la puzza, io non lo so dire, la puzza era immonda. Guardate, io vivo in un cimitero, ai morti sono abituato. Mio padre faceva questo lavoro, mio nonno lo stesso, si può dire che ci sono nato in questo cimitero. Quando sono arrivati i carabinieri hanno vomitato, tutti. Io no. Per dire, non mi impressionano i morti, ma quello che c’era in quel negozio era fuori dal normale. Io non lo so chi li ha uccisi ma dev’essere pazzo. Lo devono rinchiudere, lo devono fermare.
Perché poi? Fino al giorno prima, io sono sicuro, li vedevo tutti i giorni, la mattina per il caffè e la sera quando andavano a casa, tutti i giorni, due fiorai, normali. Non me lo posso spiegare. Perché uccidere due fiorai? Perché così? Come hanno fatto? Erano decomposti, completamente. Gesù. La sera prima li ho salutati e la mattina li ritrovo come se fossero morti da trent’anni.
Ho chiesto a mio nipote di darmi una mano perché non posso lavorare in queste condizioni, non dormo la notte, sono troppo sconvolto, ma qua hanno tutti paura e non ci vuole venire. Ma io non posso lasciare il cimitero chiuso, come si fa. I corvi me li sogno a occhi aperti. Non ci posso pensare. Quando ho capito che c’era qualcosa che non andava, con Antonio e Carmela ci conosciamo da tanti anni, ho rotto la porta per entrare, cosa dovevo fare. Gesù, i corvi! A decine sono scappati fuori. Ma qua corvi non ce ne sono mai stati! Qualche cornacchia, ma corvi mai, non è posto di corvi questo. Mi sono volati in faccia. Ho gridato, certo che ho gridato, ma chi mi doveva sentire? Non c’è nessuno qui la mattina presto. Non dovevo entrare. Ma cosa ne sapevo. Cosa potevo saperne.
I carabinieri dicevano che non erano loro, che due persone vive il giorno prima, il giorno appresso non possono essere decomposte. Io dicevo, ma guardate che li conosco, sono loro, sono loro, sono sicuro. Ma com’è possibile, dicevano loro. Non lo so com’è possibile ma sono loro e infatti erano Antonio e Carmela. Altro che carabinieri, il prete ci voleva. L’esorcista ci voleva!
Le povere figlie, orfane senza nessuno. Mi hanno riferito che hanno una zia ad Avellino, ma cosa vanno a fare ad Avellino a diciannove anni? Non hanno detto una parola, nessuno le ha sentite parlare, nemmeno ai funerali. Povere ragazze.
Io non so che fare, il cimitero deve stare aperto anche se adesso non viene quasi nessuno, hanno tutti paura. So che addirittura parlano di chiuderlo e portare i morti a Salerno. Così perdo anche il lavoro! Ma poi come fanno, prendono centinaia e centinaia di morti e come li portano, con l’autobus? Tra qualche anno me ne vado in pensione, in campagna me ne vado. A respirare l’aria fresca.
Di solito vengono loro a chiamarmi, la mattina alle sei, Carmela davanti e Antonio indietro. Antonio cammina male, glielo dico sempre che deve dimagrire, glielo dicevo sempre, povero Antonio. La faccia, la faccia, Gesù santo, Gesù, la faccia, non c’era più. I vermi l’avevano mangiata tutta. Non ce la faccio. Carmela lo stesso, ma c’era un corvo con le ali aperte proprio sopra il suo viso e ho potuto vederlo solo dopo. Il negozio era pieno di corvi. E di vermi. E la puzza, io non lo so dire, la puzza era immonda. Guardate, io vivo in un cimitero, ai morti sono abituato. Mio padre faceva questo lavoro, mio nonno lo stesso, si può dire che ci sono nato in questo cimitero. Quando sono arrivati i carabinieri hanno vomitato, tutti. Io no. Per dire, non mi impressionano i morti, ma quello che c’era in quel negozio era fuori dal normale. Io non lo so chi li ha uccisi ma dev’essere pazzo. Lo devono rinchiudere, lo devono fermare.
Perché poi? Fino al giorno prima, io sono sicuro, li vedevo tutti i giorni, la mattina per il caffè e la sera quando andavano a casa, tutti i giorni, due fiorai, normali. Non me lo posso spiegare. Perché uccidere due fiorai? Perché così? Come hanno fatto? Erano decomposti, completamente. Gesù. La sera prima li ho salutati e la mattina li ritrovo come se fossero morti da trent’anni.
Ho chiesto a mio nipote di darmi una mano perché non posso lavorare in queste condizioni, non dormo la notte, sono troppo sconvolto, ma qua hanno tutti paura e non ci vuole venire. Ma io non posso lasciare il cimitero chiuso, come si fa. I corvi me li sogno a occhi aperti. Non ci posso pensare. Quando ho capito che c’era qualcosa che non andava, con Antonio e Carmela ci conosciamo da tanti anni, ho rotto la porta per entrare, cosa dovevo fare. Gesù, i corvi! A decine sono scappati fuori. Ma qua corvi non ce ne sono mai stati! Qualche cornacchia, ma corvi mai, non è posto di corvi questo. Mi sono volati in faccia. Ho gridato, certo che ho gridato, ma chi mi doveva sentire? Non c’è nessuno qui la mattina presto. Non dovevo entrare. Ma cosa ne sapevo. Cosa potevo saperne.
I carabinieri dicevano che non erano loro, che due persone vive il giorno prima, il giorno appresso non possono essere decomposte. Io dicevo, ma guardate che li conosco, sono loro, sono loro, sono sicuro. Ma com’è possibile, dicevano loro. Non lo so com’è possibile ma sono loro e infatti erano Antonio e Carmela. Altro che carabinieri, il prete ci voleva. L’esorcista ci voleva!
Le povere figlie, orfane senza nessuno. Mi hanno riferito che hanno una zia ad Avellino, ma cosa vanno a fare ad Avellino a diciannove anni? Non hanno detto una parola, nessuno le ha sentite parlare, nemmeno ai funerali. Povere ragazze.
Io non so che fare, il cimitero deve stare aperto anche se adesso non viene quasi nessuno, hanno tutti paura. So che addirittura parlano di chiuderlo e portare i morti a Salerno. Così perdo anche il lavoro! Ma poi come fanno, prendono centinaia e centinaia di morti e come li portano, con l’autobus? Tra qualche anno me ne vado in pensione, in campagna me ne vado. A respirare l’aria fresca.
˜
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L’avvicinamento
al primo giorno di scuola media non me lo ricordo perché ero così
tranquillo da non temere niente. Sarò stato forse un po’ eccitato
dal pensiero di conoscere nuovi compagni, i professori, un posto
diverso, potrebbe essere, ma conoscendomi l’unica preoccupazione
sarà stata che avessi tutto quello che mi serviva per affrontare un
nuovo anno – e avevo ogni cosa, astuccio, quaderno, penne, gomme
per cancellare, la merenda, avevo perfino uno zaino nuovo, discreto
ma alla moda, come io ero e sono tuttora. Devo essere arrivato in
ritardo, o meglio con un anticipo inferiore agli altri nuovi
compagni. Ma ero tranquillo. Qualche giorno prima mi ero accordato
con Gabriele Adinolfi, il mio compagno di banco alle elementari, per
rinnovare la consuetudine di dividere il banco doppio. Non c’era
stata neppure una trattativa o chissà quale conversazione, entrambi
ne avevamo voglia e sembrava che non fosse necessario neanche dirlo.
Gabriele
Adinolfi era già seduto con un tale Armando Piscopo, suo amico di
scuola calcio e ora agente immobiliare. Ho pianto, ho chiesto
spiegazioni, ho pianto di nuovo. Non erano ancora le nove. Alle
elementari, in cinque gloriosi anni, non avevo mai versato una
singola lacrima.
Dal
momento che il mio patto con Gabriele Adinolfi era stato infranto,
non importa quanto sleale e vigliacco fosse stato il gesto, non avevo
più un posto. Non mi restava che cercare un altro compagno di banco.
Tutti
i posti erano occupati tranne quelli alla prima fila di banchi. Ce
n’erano sei, divisi come al solito a due a due. Alla sinistra della
cattedra sedevano già da tempo, indifferenti a qualsiasi cosa
attorno a loro, le gemelle Giordano. Quel giorno non feci caso
all’aura che emanavano. Il nome Shining le aspettava come una
sentenza che puntuale arrivò. Fino al mese prima non avevo mai avuto
contatti con loro più lunghi e profondi di un ciao o di uno scusa,
mi fai passare. A discolpa di tutti, va ricordato che oggi non
puzzano più, ma in quegli anni la loro presenza era annunciata da un
profumo violento di fiori, sudore e morte, un olezzo insostenibile
dovuto al lavoro dei genitori, fiorai all’ingresso del cimitero
cittadino, e alla suggestione di noialtri ragazzi. Pensando di essere
simpatico, sorridendo, qualche tempo fa dicevo a Maria e Anna
Giordano: “Ragazze, ma vi ricordate di quando vi chiamavano
Shining? Che stronzi che eravamo. Però voi avete sempre reagito con
grande compostezza e un’eleganza che vi distingue anche oggi”.
L’ultima parte della frase era l’estremo tentativo di tirarmi
fuori da quella che, si era capito subito, non era solo una terribile
gaffe ma un momento di autentico pericolo. Le gemelle mi guardavano
con gli occhi neri che brillavano attenti e cattivi sotto la loro
fronte bassa e il cumulo di riccioli che sovrastava e faceva sembrare
minuscole le loro teste. Di fronte a quello sguardo così sulfureo
aggiunsi: “Io non vi ho mai prese in giro, eh, ragazze, non so se
ve lo ricordate, ma proprio mai, manco una volta.” Maria disse:
“Infatti solo tu sei qui.” “Già.” aggiunse Anna.
Oggi
devo la mia soddisfazione alle gemelle, non so se si possa chiamarla
felicità ma è qualcosa che ha sicuramente un sapore simile. Sanno
che sono loro debitore e tra noi c’è quasi affetto, qualcosa di
simile, un sentimento che non prevede in alcun modo l’amore, affare
verso il quale le gemelle Giordano nutrono repulsione, ma che non
contiene neppure una stilla d’odio, il che parlando di Anna e Maria
è meno frequente; tra noi c’è una cordiale simpatia senza
impegno, un’amicizia discreta. Avrei fatto di più per loro, ma
hanno preferito così.
Alla
sinistra della cattedra c’erano loro, alla destra invece Romina
Salsano e Rossella Catone, due stupide, di quelle che imparavano le
lezioni a memoria e avevano in cambio dei sette, a volte degli otto,
sempre delle insoddisfazioni perché qualsiasi giudizio era espresso
da chiunque nei loro confronti con il solo interesse di porre fine al
supplizio di sentirle parlare. Rossella Catone, me l’hanno riferito
le gemelle Giordano, si è sposata bene e vive a Lodi, a centinaia di
chilometri da qui. Sostengono che si annoi molto come del resto in
tutta la sua vita, frequenta una piscina comunale, ha un figlio di
nome Filippo che la annoia quasi quanto il marito. Quest’ultimo si
annoia a sua volta enormemente ma continua a fare soldi come una
banca. Tra i tre c’è un certo affetto poco espansivo ma costante.
Di Romina non hanno voluto dirmi niente e a nulla è valso insistere,
ho ottenuto solo di sapere che, testuali parole, “sono brutte
storie, è meglio se non girano troppo”.
Al
centro, esattamente di fronte alla cattedra – quel giorno la prima
ora era di storia e a breve sarebbe arrivato, con i suoi passettini
da topo, il professor Gelso – potevo osservare il banco vuoto che
mi aspettava. Di fianco, già seduto e composto, come se fosse lì da
sempre, c’era Michele Liguori. Mi sembrava sorridente ma avrei
scoperto che quella smorfia era la sua unica espressione facciale.
Liguori sembrava sempre sorridere e ostentare sicurezza. Liguori non
sudava mai, non era mai in imbarazzo, conosceva tutte le risposte,
finiva i temi nell’esatto istante in cui andavano consegnati, non
un secondo dopo, né un attimo prima. Scriveva con la destra e
copriva con il braccio sinistro il foglio o il libro, in tre anni non
si è mai distratto. Impossibile competere con la perfezione
disumana. Non aveva amici ma nessuno ha mai avuto il coraggio di
prenderlo in giro, mai. Lui sorrideva e rispondeva esattamente.
Nessuno gli ha mai chiesto di copiare e del resto se qualcuno lo
avesse fatto, probabilmente non avrebbe ricevuto risposta se non il
solito sorriso, la stessa smorfia che stabiliva la distanza tra lui e
il resto del mondo.
Mi è stato chiaro già dagli anni del liceo che se a rovinarmi l’esistenza era stato Liguori, a dar fuoco alla miccia era stato Gabriele. Sua era la responsabilità di aver scatenato la valanga, era stato lui a suonare il clacson per primo nel chiuso della galleria, l’allegro imbecille. A pagare sono stati in due, ognuno per la sua colpa e secondo la propria responsabilità.
Armando Piscopo non aveva stretto accordi con me, non sapeva nulla, e comunque si è già rovinato da solo. Fare l’agente immobiliare in quel minuscolo paesino è come avvelenarsi di noia ogni giorno. Credo che faccia uso di cocaina per sopravvivere. Me ne hanno parlato come di un uomo obeso, costantemente sudato, estate e inverno, incapace di tenere testa al suo stesso fallimento.
Mi è stato chiaro già dagli anni del liceo che se a rovinarmi l’esistenza era stato Liguori, a dar fuoco alla miccia era stato Gabriele. Sua era la responsabilità di aver scatenato la valanga, era stato lui a suonare il clacson per primo nel chiuso della galleria, l’allegro imbecille. A pagare sono stati in due, ognuno per la sua colpa e secondo la propria responsabilità.
Armando Piscopo non aveva stretto accordi con me, non sapeva nulla, e comunque si è già rovinato da solo. Fare l’agente immobiliare in quel minuscolo paesino è come avvelenarsi di noia ogni giorno. Credo che faccia uso di cocaina per sopravvivere. Me ne hanno parlato come di un uomo obeso, costantemente sudato, estate e inverno, incapace di tenere testa al suo stesso fallimento.
Verso
la fine del secondo anno, in primavera, la classe fu invasa da una
vera e propria tempesta ormonale. Alcuni di noi studenti si resero
protagonisti di gesti spiacevoli. La povera Viviana Catania piangeva
ogni volta che Vigna e Bagnoli le toccavano il culo. Io aspettavo la
mia occasione e osservavo Liguori che sarà stato anche geniale ma
bello non era. Se non potevo essere il migliore in nessuna materia lo
sarei stato nell’esplorazione sessuale. Non ero nemmeno di gusti
esclusivi, mi piaceva molto Serena Gallo, ma Daniela Senatore e
Giulia Passaro mi avrebbero fatto sentire a posto e anche Giulia
Polito non mi dispiaceva, con le sue mani affusolate, il naso
aquilino e la pelle bianca bianca.
Liguori
vinse il premio di studente dell’anno. L’aveva vinto anche l’anno
prima, non ci sarei rimasto neanche male se non si fosse presentato a
ritirarlo con Serena Gallo che lo stringeva a sé. Non ho dormito
quella notte, me lo ricordo ancora. Mi capitava in quel periodo di
masturbarmi pensando a Serena; da quel giorno ho dovuto smettere. La
mattina seguente, ancora sconvolto, ho pensato che non ne sarei
uscito mai, che era una maledizione. Ebbi un esaurimento nervoso da
cui per fortuna mi riebbi in fretta. Mia madre si spaventò molto a
vedermi così abbattuto, mio padre meno, sosteneva che mi avrebbe
fortificato.
I
primi due anni speravo che venisse bocciato qualcuno per potermi
sedere l’anno seguente nel banco lasciato libero, ma la scuola
media in quegli anni era considerata, non senza molte ragioni, un
luogo di passaggio e in tre anni non furono bocciati neppure i
peggiori - perfino Vigna, che pure era un criminale fatto e finito,
non rischiò mai davvero. Alla fine dei tre anni tutti i professori e
addirittura il preside vennero a salutare Liguori che lasciava
l’istituto non solo con il massimo dei voti, come era naturale, ma
con onori che non sono stati riservati al più geniale dei pensatori.
Ero casualmente di fianco a Vigna e Bagnoli, contenti perché erano
riusciti a finire i tre anni meglio di come temevano e dissi loro:
“Se muore domani gli intitolano la scuola, a Liguori.”
Mi
rivolsero uno sguardo stupito, poi Bagnoli, che era un po’ più
veloce di pensiero, disse: “Be’, non è uno studente normale. Ha
fatto cose incredibili. E mai un giorno di assenza in tre anni!”.
“Già.”
risposi. Poi tornai a casa. Le vacanze mi aiutarono a prendere le
distanze da quei tre anni infami e mi iscrissi al liceo se non con
entusiasmo quantomeno con leggerezza. La mia sicurezza però era
svanita per sempre. Liguori aveva preso un bambino brillante, lo
aveva distrutto e al suo posto aveva avuto tre anni di tempo per
costruire un ragazzo mediocre e poi un uomo altrettanto insulso. Non
sono mai più stato il primo, nessuno ha notato i miei talenti, dal
secondo posto dietro Liguori – nonostante fossimo seduti di fianco,
era chiaro a tutti che lui era il primo e io solo il secondo – ero
scivolato nella mediocrità. A nulla sono serviti gli studi, le notti
sui libri e poi il lavoro forsennato. Alla soglia dei quarant’anni
ho rinunciato. Di Liguori non sapevo più niente né mi interessava
saperlo e non attribuivo a lui i miei insuccessi, o meglio la
mancanza di successi, in qualsiasi campo. Ho continuato a coltivare
un rancore con radici molto solide verso di lui, ma razionalmente non
gli davo la responsabilità della mia vita. Sono state le gemelle
Giordano a farmi vedere la verità, a mostrarmi la catena di eventi
in modo così chiaro che ogni possibile dubbio, ogni obiezione era
dissipata prima ancora che potessi aprire bocca per esprimerla.
Il momento della conoscenza è stato come prendere fuoco, mi sono sentito invaso dalla verità con una potenza che non avevo mai sperimentato prima. Anna e Maria mi guardavano immobili, solo i caschi di capelli ricci oscillavano piano nelle righe di luce create dalle persiane abbassate.
Il momento della conoscenza è stato come prendere fuoco, mi sono sentito invaso dalla verità con una potenza che non avevo mai sperimentato prima. Anna e Maria mi guardavano immobili, solo i caschi di capelli ricci oscillavano piano nelle righe di luce create dalle persiane abbassate.
Non
le incontravo da quando ero andato via dal paese, come quasi tutti i
ragazzi della mia generazione. Quando morì mia madre tornai per
organizzare il funerale e gestire le varie pratiche. Non siamo mai
stati ricchi ma fare ordine era complicato, così chiesi all’agenzia
funebre se conoscesse qualcuno in grado di aiutarmi a gestire tutta
la carta che sembrava essere comparsa improvvisamente, le utenze da
chiudere, i conti da saldare. Per di più sarei dovuto tornare a
Napoli presto, non potevo assentarmi troppo. Il titolare dell’agenzia
mi disse che in paese quasi nessuno chiedeva servizi del genere, che
c’era sempre un parente a occuparsi di tutto. “Io però non ce
l’ho un parente.” risposi. “Quella che c’era è morta, l’ha
visto anche lei. Morta era proprio morta, non trova?” aggiunsi.
Alla fine si ricordò che forse qualcuno poteva aiutarmi: “Lei è
di qua, vero?”
“Sì.”
“Si
ricorda il fioraio che c’era qualche anno fa davanti al cimitero,
dove adesso hanno allargato il parcheggio… Fino a dieci, forse
quindici anni fa, poi sono morti, marito e moglie. Ha capito?”
“Sì,
vagamente me li ricordo.”
“Le
figlie fanno le ragioniere, so che qualche volta, anni fa, quando
erano vivi i genitori, hanno fatto anche questo tipo di lavori che
serve a lei. Adesso sarà da un po’ che non lo fanno, ma le cose
più o meno saranno sempre le stesse…”
“Ma
le gemelle Giordano, dice?” chiesi.
“Sì,
sì, le figlie del fioraio. Povere ragazze…”
“Perché,
cosa è successo?”
“Lei
non lo sa come sono morti i genitori? Gesù, ma da quanto tempo non
veniva qua?”
“Eh,
da parecchio. Ma perché, come sono morti?”
“No,
guardi, io non ci riesco, solo il ricordo… Per carità. Chieda,
tanto lo sanno tutti. Comunque, se per lei va bene, le do il numero
delle ragazze.”
Decidere
di telefonare non fu semplicissimo, il ricordo delle gemelle Giordano
era ancora inquietante, poi non le vedevo né sentivo da trent’anni.
Tuttavia avevo bisogno di una mano, non sapevo a chi rivolgermi e mi
decisi a provare con loro. Mi presentai pensando che se pure fossero
riuscite a riconoscermi il ricordo sarebbe stato molto labile, invece
fu come se leggessero un’informativa della Digos. Non solo
ricordavano ogni cosa dei tre anni passati forzatamente nella stessa
classe, ma sapevano tutto della mia vita - i miei lavori, il
divorzio, le città dove ho abitato. La cosa mi spaventò, ma il
pensiero di chiedere loro perché avessero così tante informazioni
su di me mi spaventava ancora di più, così dissi a me stesso che in
un piccolo paese queste cose succedono, che è come non essere mai
andato via. Prendemmo un appuntamento per risolvere le beghe
burocratiche e furono encomiabili per precisione e velocità, in
pochi giorni era tutto risolto. Mi offrii di pagare loro un qualsiasi
onorario, in nero feci in modo di fare intendere, ma loro risposero
che non avevano bisogno di soldi, che in ricordo dei vecchi tempi un
favore era dovuto. Non ci fu modo di fare accettare loro del denaro.
Mi sentii in debito e mi presentai a casa loro il giorno seguente con
duecento euro di dolci e prodotti tipici. Non fecero una piega ma
dissero solo: “Da te non ci aspettavamo di meno. Non ci siamo mai
sbagliate sul tuo conto. Tu sei una brava persona”. Mi invitarono a
passare da loro il giorno seguente per mangiare insieme alcuni dei
dolci e accettai. Fui invitato a trascorrere a casa loro anche il
pomeriggio successivo e accettai di nuovo. Quel giorno furono anche
più enigmatiche e silenziose del solito. I dolci erano sempre quelli
che avevo portato io, sembrava che in casa non ci fosse cibo, solo
mobili chiusi. Dopo un periodo di silenzio che sarebbe stato
imbarazzante se non avessi avuto di fronte le gemelle Giordano, che
invece erano impegnate a fissarmi come se fosse la cosa più naturale
del mondo, assolutamente consapevoli di essere inquietanti,
continuando a tenere entrambe gli occhi sbarrati su di me, mi
chiesero: “Noi non crediamo che tu abbia perdonato Liguori, abbiamo
ragione, è vero?”
“Io non ci penso più a Liguori. Non so neppure che faccia abbia adesso. È acqua passata.” risposi.
Si sporsero in avanti sul tavolo all’unisono, con un effetto comico da film muto. Poi fu Anna a parlare: “C’è poco da ridere. Tu vuoi vendicarti, lo sappiamo. E a noi puoi dirlo.” Il sorriso mi sparì dalla faccia.
“Non lo amo, va bene.” dissi.
“Tu lo odi.” rispose Maria, poi le scappò una risatina come se le fosse scappato qualcosa di mano. “Un altro pasticcino alle mandorle?” aggiunse Anna.
“Io e Anna possiamo aiutarti. Tu sei una brava persona.” disse Maria, gli occhi fissi e l’espressione immobile.
“Me l’avete già detto che sono una brava persona.” risposi impaurito.
“Non è forse vero? Non sei una brava persona?” l’espressione di Anna era sempre uguale, non una ruga si era mossa, ma gli occhi sembravano quasi piangere. Maria le strinse la mano ossuta e scura nelle sue.
Uscii dall’appartamento delle gemelle Giordano solo a tarda notte. I dolci erano finiti e il destino di Liguori segnato per sempre. Sulla porta un pensiero mi investì violentemente. “Adinolfi!” dissi solo.
“È tardi. Siamo stanche. Ci penseremo domani. Vieni alle quattro con i dolci.” disse Maria. “Buonanotte.” aggiunsero entrambe.
“Buonanotte. E grazie.” risposi.
“Io non ci penso più a Liguori. Non so neppure che faccia abbia adesso. È acqua passata.” risposi.
Si sporsero in avanti sul tavolo all’unisono, con un effetto comico da film muto. Poi fu Anna a parlare: “C’è poco da ridere. Tu vuoi vendicarti, lo sappiamo. E a noi puoi dirlo.” Il sorriso mi sparì dalla faccia.
“Non lo amo, va bene.” dissi.
“Tu lo odi.” rispose Maria, poi le scappò una risatina come se le fosse scappato qualcosa di mano. “Un altro pasticcino alle mandorle?” aggiunse Anna.
“Io e Anna possiamo aiutarti. Tu sei una brava persona.” disse Maria, gli occhi fissi e l’espressione immobile.
“Me l’avete già detto che sono una brava persona.” risposi impaurito.
“Non è forse vero? Non sei una brava persona?” l’espressione di Anna era sempre uguale, non una ruga si era mossa, ma gli occhi sembravano quasi piangere. Maria le strinse la mano ossuta e scura nelle sue.
Uscii dall’appartamento delle gemelle Giordano solo a tarda notte. I dolci erano finiti e il destino di Liguori segnato per sempre. Sulla porta un pensiero mi investì violentemente. “Adinolfi!” dissi solo.
“È tardi. Siamo stanche. Ci penseremo domani. Vieni alle quattro con i dolci.” disse Maria. “Buonanotte.” aggiunsero entrambe.
“Buonanotte. E grazie.” risposi.
Fui costretto a rimandare il mio ritorno a Napoli. Il lavoro ne risentì meno di quel che credevo. Pensavo di essere indispensabile in studio ma evidentemente non era così. La mia compagna non ebbe niente da ridire ma non si propose di venire ad aiutarmi a sbrigare le faccende burocratiche in cui avrei dovuto essere immerso. Io del resto non feci niente per farglielo dire. Le gemelle Giordano non avrebbero apprezzato e lei non avrebbe capito. La mia ex-moglie recriminò per gli accordi presi ma di fronte alla morte di una madre fu meno rivendicativa del solito.
Con le gemelle Giordano ogni giorno fino a notte inoltrata esaminavamo le condizioni di Liguori e Adinolfi, limavamo i dettagli, ridevamo degli spunti creativi dell’uno o dell’altra. Non potrei parlare di amicizia ma di sicuro il tempo trascorso a casa loro, nonostante l’atmosfera lugubre, era più che piacevole. Una settimana dopo Adinolfi era in galera. Truffa, bancarotta fraudolenta, corruzione – e questi erano reati che aveva realmente commesso – più il capolavoro di Anna Giordano: induzione alla prostituzione, un giro inventato di sana pianta, degno di un romanzo e che soprattutto aveva già provocato un’ulcera e svariate crisi di nervi ad Adinolfi.
Liguori impiegò più tempo a crollare ma il tonfo fu memorabile. Fummo tutti e tre dispiaciuti, sinceramente dispiaciuti intendo, quando la madre di Liguori morì di crepacuore. Un errore nella strategia delle gemelle. Liguori cercò di resistere con tutte le sue forze e destò in noi che lo osservavamo perfino una certa ammirazione. Le gemelle Giordano, Maria era maestra in questo, avevano sintonizzato la televisione in modo che al posto di Rete4, che tanto, dicevano, non vedevano mai, si poteva osservare in diretta lo sfacelo provocato dal loro lavoro. Al posto di Rete4 c’era il canale del Male. “Il mondo è andato avanti, non è più tempo di palle di vetro”, diceva sempre Maria.
Liguori fece in tempo a farsi odiare ancora. Prima di vedere la sua vita disgregata fui costretto a tornare al lavoro. Ci mise così tanto ad arrendersi che non potei rimandare. La sera telefonavo alle gemelle Giordano per avere gli ultimi aggiornamenti. Loro registravano su vecchie vhs i momenti più spassosi della distruzione di Liguori. La diretta però era un’altra cosa. Anche oggi ogni tanto riguardo le registrazioni migliori, le gemelle mi hanno fatto dono delle videocassette in un cofanetto rilegato da loro. A volte riesco ad emozionarmi ma la diretta mi dava sensazioni che non ho più provato. La presenza di Anna e Maria contribuiva al divertimento. Entrambe sono dotate di uno strano umorismo e sono critiche di loro stesse e della materia molto severe. Osservare con loro il lavoro svolto era un piacere intellettuale senza pari.
Liguori si dibatteva, resisteva. Vedevo le gemelle stanche, Anna soprattutto, ma alla fine crollò. Dopo due mesi passati a dormire in macchina, per di più infestato dai topi e dalle zecche – ne mandammo una quantità che impressionò molto Anna – finalmente si suicidò, il nome infangato per sempre da accuse e infamie da cui era impossibile difendersi, evitato perfino dai barboni, solo peggio di un cane. Morì sporco, tumefatto, distrutto ma riuscì a darmi un ultimo dolore. Ho rivisto la scena centinaia di volte nella speranza di scoprire una differenza che non ho mai scovato. Liguori, nell’attimo in cui si è lanciato sotto il regionale delle 5.46 aveva ritrovato la sua smorfia sorridente, la pace e moriva sereno.
Le gemelle Giordano presero la cosa come un’offesa personale e intendevano vendicarsi contro il figlio di Liguori ma mi opposi, nei termini in cui è possibile opporsi alle gemelle. Credo che qualcosa abbiano fatto comunque, perché il ragazzo sta faticando troppo nella vita.
Superata la delusione per il sorriso finale di Liguori, la vita riprese come prima ma con una rinnovata sicurezza, con una leggerezza che non ricordavo possedere. Ogni cosa si mette al suo posto da sola, sono perfino più buono. La mia ex-moglie dice che non mi si riconosce e in cuor suo crede che la morte di mia madre mi abbia sbloccato qualche trauma infantile e del resto è sempre ricorsa a spiegazioni psicoanalitiche. Ho il sospetto che abbia addirittura pensato di chiedermi di tornare insieme. Spero che non lo faccia.
Ogni domenica chiamo le gemelle Giordano, chiedo loro come stanno, sono sempre le stesse, inquietanti e geniali. In una delle ultime telefonate, Maria, senza preamboli, dice: “Sappiamo che vuoi chiederci qualcosa, abbiamo apprezzato che tu non l’abbia fatto prima, ora puoi farlo. Ti aspettiamo la prossima domenica. Porta i dolci.” Rimasi senza parole. “Se vuoi.” aggiunse.
La domenica successiva mi misi in macchina, trovare una scusa per tornare al paese dopo tanto tempo era difficile, così dissi a tutti che semplicemente avevo il bisogno di vedere di nuovo casa dei miei genitori, la casa dove ero cresciuto. Era in vendita da mesi ma ancora non si era presentato nessuno, stavo anche pensando di cambiare agenzia immobiliare, Piscopo non riesce a cavare un ragno dal buco. Avevo riscoperto il piacere di ascoltare la radio e trasmettevano un programma di approfondimento sulle elezioni americane di mid-term molto ben curato. Non ascoltavo la radio da anni, ma Radio3 era ancora una garanzia. Avrei lasciato la vendita della casa a Piscopo, ma perché no, mi dissi. Pover’uomo. In fondo non ero ricco ma non mi mancava niente. I soldi della vendita sarebbero arrivati, prima o poi. Tempo al tempo.
Non incontrai traffico e mi permisi il lusso di uscire dall’autostrada e cercare una trattoria per pranzare. Il cameriere era un ragazzo del mio paese molto simpatico e parecchio sveglio. Mi pesa non poter dire alle persone delle gemelle Giordano, del Male, del loro potere, di come tutto questo sia in equilibrio con il mondo. Non c’è alcun contratto con Satana, tranquilli, solo bisogna saper portare il peso della sfortuna altrui, tutto qui. Anna e Maria però non vogliono. Devono essere loro e solo loro a decidere chi può usufruire dei loro poteri. Io non posso che rispettare questa volontà.
Mi aspettavano per le quattro, al pomeriggio dormono sempre un paio d’ore, ero in anticipo e così dopo aver comprato i loro dolci preferiti, mi attardai a fare un giro nei dintorni, presi un caffè, lessi due pagine del Corriere dello Sport appoggiato sul bancone, dopo venti secondi le dimenticai.
L’accoglienza, nello stile delle gemelle, fu glaciale come sempre, ma si vedeva che erano felici di vedermi e anch’io ero contento di poterle rincontrare dopo tanto tempo. Ormai tra noi, nonostante i silenzi, non c’era più nessun imbarazzo. Se mi scappava da ridere per i loro movimenti all’unisono, purché non esagerassi, ma io sono sempre stato molto rispettoso, loro si sforzavano di comprendere. Sapevano che lo facevo con affetto sincero.
Come quasi sempre in questi casi fu Maria a rompere la membrana invisibile che impediva di affrontare il tema della visita.
“E insomma, tu vuoi sapere se siamo state noi a uccidere mamma e papà.” disse.
“Non
è che voglia proprio saperlo, ma me lo sono chiesto, sì.”
risposi.
“Ti sei anche dato una risposta, a quanto pare.” interruppe Anna.
“Ragazze, non vi ho mai giudicate in trent’anni e più che ci conosciamo, non ho intenzione di iniziare adesso. Ho cercato di capire, tutto qui” mi difesi, sicuro della mia innocenza.
Le gemelle non risposero. Pensai si fossero offese ma ero sincero. Certo, la domanda me l’ero fatta ma solo per curiosità. Figurarsi se dopo tutto quello che avevamo condiviso mi mettevo a fare il moralista o l’impiccione. Cercavo le parole da dire per rassicurarle quando Anna parlò di nuovo: “Noi ti crediamo.”
“Meno male.” risposi.
“Tu forse non capisci.” riprese Anna, Maria restava immobile come imbalsamata. “Quello è stato l’inizio di tutto. Noi non sapevamo di poterlo fare. È stato tremendo. Avevamo fatto piccole cose prima, ma niente che… È stato orribile. Avevamo litigato. Erano all’antica, ignoranti, sai come sono qui, la gente del paese…”
“Io non voglio che voi me lo diciate per forza, Anna. Maria, anche tu, non è necessario.” dissi.
“Noi vogliamo che tu sappia.” rispose Maria.
“Siamo stati bene insieme.” disse Anna. “E anche noi abbiamo bisogno di parlare ogni tanto. Lo sai.”
“Allora vi ascolto.”
“Mangiamo un pasticcino, prima.” disse Anna.
“Ti sei anche dato una risposta, a quanto pare.” interruppe Anna.
“Ragazze, non vi ho mai giudicate in trent’anni e più che ci conosciamo, non ho intenzione di iniziare adesso. Ho cercato di capire, tutto qui” mi difesi, sicuro della mia innocenza.
Le gemelle non risposero. Pensai si fossero offese ma ero sincero. Certo, la domanda me l’ero fatta ma solo per curiosità. Figurarsi se dopo tutto quello che avevamo condiviso mi mettevo a fare il moralista o l’impiccione. Cercavo le parole da dire per rassicurarle quando Anna parlò di nuovo: “Noi ti crediamo.”
“Meno male.” risposi.
“Tu forse non capisci.” riprese Anna, Maria restava immobile come imbalsamata. “Quello è stato l’inizio di tutto. Noi non sapevamo di poterlo fare. È stato tremendo. Avevamo fatto piccole cose prima, ma niente che… È stato orribile. Avevamo litigato. Erano all’antica, ignoranti, sai come sono qui, la gente del paese…”
“Io non voglio che voi me lo diciate per forza, Anna. Maria, anche tu, non è necessario.” dissi.
“Noi vogliamo che tu sappia.” rispose Maria.
“Siamo stati bene insieme.” disse Anna. “E anche noi abbiamo bisogno di parlare ogni tanto. Lo sai.”
“Allora vi ascolto.”
“Mangiamo un pasticcino, prima.” disse Anna.
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