This must be the place - Paolo Sorrentino

This must be the place - Paolo Sorrentino - 2011 - 118'

Cosa ci si aspettava da Sorrentino? Perché questa storia che non c'è? E' poi così distante dai film e dalle storie precedenti? E che fine ha fatto Garrone? A quest'ultima domanda non saprei rispondere, spero stia lavorando al prossimo film. Ma da Sorrentino mi aspettavo più o meno questo film. Forse con meno divagazioni paesaggistiche alla Wenders, meno on the road; un film un po' più compatto. Ma le idee di Sorrentino, il suo sguardo, i suoi personaggi sono tutti lì. Forse avrei evitato il lieto fine, la trasformazione completa, ché Sean Penn sbarbato non fa una bella impressione dopo un film intero da Cheyenne; ma magari era stufo di storie che davano l'idea di consumarsi dall'interno e ha voluto esplicitare il cambiamento.


Chi si aspettava un altro capolavoro, è rimasto deluso, ma si vede che non conosce l'arroganza tipica dei registi alla Sorrentino, per cui dopo un capolavoro di compattezza lenta come Il Divo, si dedicano a film formati da stracci, pieni di tutto e il più superficiali possibile. Possiamo dire che è un brutto film, con alcune battute molto divertenti e che lascia un senso di inutile vaghezza barocca? Non penso però che ci si possa limitare a questo; qualche impressione l'ho avuta già durante la visione e tutto il tempo trascorso da allora non ha fatto che confermarmele. 
Si è detto spesso che Sorrentino è il nuovo Fellini, in uno di quei paragoni impossibili che divertono tutti, perché sono inutili e rivelatori del flusso delle cose e delle idee. Penso sia vero, sono davvero simili; ma non nello spirito visionario, onirico, da surrealismo borghese, e quindi per niente rivoluzionario e molto autoreferenziale. Sono simili per la padronanza completa delle tecniche, per le finte improvvisazioni di scrittura e per l'arroganza del genio. Sorrentino è il regista italiano più arrogante degli ultimi anni, lo sa, gli piace anche esserlo, a volte lo maschera bene, altre volte, come in questo caso, gli aforismi sono a getto continuo e non basteranno mai a fare un film. 
Altra impressione immediata e rinforzata; il film è un passo falso indiscutibile, ma è parte di un percorso che porterà presumibilmente ad altri film invece molto belli, a patto che si ritrovi il gusto e l'abilità di una scrittura meno compiacente verso sé stessi e verso i pubblici più comodi. Visto in questo modo, il film riacquista una speranza che la visione non dà mai, perché ci si perde dietro mille faccette, risolini, imitazioni e disegni di personaggi buffi. Sembra uno di quei fumetti americani underground di inizio carriera, in cui l'autore pensa che tutto debba far ridere, che tutto debba essere strano e sopra le righe. 
Il colpo di grazia a un film già non memorabile, arriva quando a tutta una serie di divertenti macchiette, che scivolano via senza lasciare niente, Sorrentino decide di infilare dentro il processo di maturazione non richiesto del protagonista, la Shoah. E non se ne può più di questo utilizzo personale, scorretto, superficiale delle tragedie. Non c'entra niente. Proprio niente. I movimenti di macchina, l'altro marchio di fabbrica di Sorrentino, ci sono tutti, e il 90% sono inutili. E con questo l'argomento tecnico direi che può considerarsi concluso. Sean Penn tira avanti il film da solo ed è bravissimo e allo stesso tempo uno strazio. L'idea di unire le caratterizzazioni del cantante dei Cure e di Ozzy contemporaneo avrebbe funzionato se il personaggio avesse avuto una vita propria; ma è solo l'imitazione di due prototipi reali. E non si distacca mai da questa concezione mediocre della recitazione. L'esecuzione è brillante, ma manca la sostanza. 


Siamo tutti lì, come in questo fotogramma, in attesa che l'attesa diventi qualcosa e sembra non diventare mai nulla. Quando poi la svolta arriva, e Sean Penn si presenta ripulito e con le sigarette, rimpiangi quasi l'attesa. Perché, ed è forse la cosa che mi ha dato più fastidio del film, perfino più dell'uso della Shoah, quest'idea che le persone debbano cambiare mi fa leggermente rabbrividire. Ora Sean Penn è di nuovo integrato nel paesaggio, non cammina più come Ozzy. Ma il problema non è mai stato adattarsi al mondo. Il problema è trovare il proprio posto nel mondo; senza dare fastidio a nessuno, per quanto ci si possa riuscire, ma senza rinunciare. 
Tutto il film è disseminato di citazioni; una in particolare riguarda il personaggio che racconta la storia dei trolley. E che è interpretato dallo stesso attore, appena mi ricordo come si chiama poi ve lo scrivo (quindi me lo ricorderò e dimenticherò di scriverlo), che apre e chiude The Big Lebowski. Dalla critica seria è stato spesso citato come modello Wim Wenders. Già l'idea di prendere a modello Wenders è quantomeno discutibile, ma almeno non si scelga proprio il Wenders superficiale e etnocentrico dei film di viaggio. 
Aspetto, senza ironia e ancora fiducioso, il prossimo film. 

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