L'altro volto della speranza




Il compagno Kaurismaki ha sempre ragione, nonostante questo non sia il suo film migliore.
Un richiedente asilo siriano e un ex commerciante di camicie che si reinventa ristoratore si muovono al confine tra la realtà e l’universo di Kaurismaki. La vita è un incubo ma si può solidarizzare tra compagni, tra esseri umani, si deve solidarizzare, e questa è l’unica soluzione in grado di rendere sopportabile e allo stesso tempio degna l’esistenza. Kaurismaki continua a dirci la stessa cosa, attraversando questa volta l’epopea, per niente epica ma disumana e fredda, di un siriano, richiedente asilo a Helsinki, alle prese con un gruppo di fascisti – irredimibili –, con le leggi dello Stato (che sia quello finlandese è del tutto casuale) che si fanno beffa della realtà e di qualsiasi presa di coscienza umana, con la solidarietà dei pari ovvero degli ultimi, di chi sta ai margini, di chi non vuole conoscere il potere. A proposito di potere, in un’intervista Kaurismaki ha dichiarato che solo chi non è troppo intelligente si interessa e cerca il potere, perché il potere, parole sue, è noioso. Credo che con noioso si debba intendere tutto il peggio, tutto quanto si può trovare di malato, nell’accezione peggiore che possiamo dare alla parola noia. 


Ci sono nel film un paio di novità che hanno scalfito l’impianto cinematografico e che forse hanno destabilizzato anche Kaurismaki oltre che gli spettatori. Penso in particolare alle scene del film ambientate nei luoghi dello Stato (centri di permanenze, caserme, tribunali) e a quella iniziali sulla nave su cui ha viaggiato Khaled (il protagonista siriano). In entrambi i casi sono sequenze in cui la ricerca dell’inquadratura e della luce diventano più visibili anche per gli spettatori, sequenze che perdono fluidità e che raccontano, forse, di una ricerca di soluzioni più faticose del solito anche per Kaurismaki. Ricerca che porta però ad una delle scene migliori e più stratificate del film: il ritorno – e quando mai se n’era andato – del proletariato. Khaled viene fuori dal carbone trasportato da una nave e trovarci dentro la descrizione del capitalismo è immediato. L’ultimo, il sottoproletario, il nero (dal carbone), il profugo, lo straniero, il senza terra, il povero, cerca il suo posto nel mondo e il sistema capitalista cerca di sopprimerlo (come tenteranno di fare i fascisti durante tutto il film) o di allontanarlo senza preoccuparsi più della sua sorte (la strategia della burocrazia). Senza questa scena iniziale Khaled non avrebbe i caratteri che Kaurismaki ha voluto fargli portare e che è stato in grado di comunicare. 
Allo stesso modo e con la stessa forza, nella scena dell’intervista ambientata in un’aula del centro di detenzione, dove Khaled è lasciato in attesa che lo Stato prenda in esame la sua richiesta di esistenza, Kaurismaki, con inquadrature rigidissime riesce a riassumere in pochi minuti cosa si prova a rispondere a domande che non dovrebbero essere poste per semplice decenza, e che l’operatrice è costretta a formulare, con tutto il garbo di cui è capace, perché non c’è burocrazia senza schedatura, non c’è richiesta senza domande, non c’è centro di detenzione senza disumanità.
Tutto il film si muove tra due spinte, quella dello Stato e dei fascisti che non riconoscono l’esistenza di Khaled (e di tutto il resto dei personaggi marginali che popolano il film) e cercano di cancellarlo fisicamente o burocraticamente, e quella degli ultimi, compreso il secondo protagonista, ché chiamarlo co-protagonista sarebbe un delitto: gli homeless salvano Khaled dai fascisti, il musicista di strada gli fornisce le prime indicazioni utili, Wikstrom fa in modo di assumerlo e lo protegge, Mazdak, un profugo iracheno che condivide con lui la vita nel centro di detenzione, gli dà più aiuto di quanto uno spettatore sia pronto ad accettare, e si potrebbe continuare a lungo.


Il cinema di Kaurismaki, e quindi la sua idea morale del mondo, è sempre stato segnato dalla responsabilità delle scelte. Questo film non fa differenza e i personaggi che lo abitano scelgono da che parte stare, senza possibilità di equivoci, restando dalla stessa parte dall’inizio alla fine. Non si tratta di stereotipi o di caratteri allegorici, ma di uomini e donne che incarnano l’etica, o la mancanza di questa, così come la intende Kaurismaki.
In due scene Kaurismaki sembra dirci con chiarezza che la necessità di scegliere da che parte stare si impone con forza e che pensare di proseguire l’ottuso e ipocrita tentativo di “borghesizzare” la questione è esso stesso una scelta, quella di cercare di cancellare l’esistenza di Khaled e degli altri e delle altre. Non si può proprio stare nel mezzo, non più, se pure è stato possibile in passato e Kaurismaki mostra di dubitarne parecchio. In questo senso sono esemplari la scena dell’incontro tra Khaled e Wikstrom – un pugno, la dichiarazione di una diversità e lo scontro, il successivo riconoscersi tra gli stessi ultimi – e quella del controllo dei documenti in strada da parte di due poliziotti: i due fermano Khaled e l’approccio è estremamente aggressivo, siamo portati a credere che la storia evolva verso una seconda incarcerazione (sappiamo che il documento di Khaled è falso); invece il trucco riesce, Khaled è (momentaneamente) salvo e i due poliziotti, riconosciuta l’esistenza dentro le regole dello Stato, assumono un tono cordiale, si scusano del controllo e di nuovo, riconoscono Khaled come interno e non più come marginale (marginale perché Khaled non è neppure esterno o non starebbe cercando di restare a Helsinki, è così marginale da non avere più la sua vera identità e abitarne una fittizia, simile, come gli ha detto il ragazzo falsificatore di documenti, non troppo diversa, non si può davvero entrare, ma si può restare marginali, non tornare ad essere esterni, formare un cerchio sul confine).
Il finale è un pezzo di umanità straordinario, una di quelle scene che giustificano il continuo ricorso a Bresson, Chaplin e Buster Keaton per spiegare il cinema di Kaurismaki. L’intera sequenza finale è una rincorsa tra l’azione chapliniana e la fissità di Keaton e si conclude in due inquadrature che sarebbero potute uscire davvero da Bresson, portatrici di un senso di vicinanza all’umanità che è difficilissimo da descrivere perché bisognerebbe usare le categorie del mistico o del religioso.
In un’intervista uscita su Repubblica Kaurismaki dichiara: “Jean Renoir con La grande illusione voleva fermare la Seconda guerra mondiale, ma il cinema non cambia il mondo e non ci è riuscito. Ma almeno ci ha provato. E' il nostro dovere, non saresti un essere umano se non provassi”. Più programmatica di così non saprei immaginare una dichiarazione.

Nel film c’è un amico di Kaurismaki, che suona come una rockstar perché è una rockstar – beata ignoranza musicale! –, ovvero è Tuomari Nurmio. Tre canzoni prese a caso per iniziare. Vale la pena ascoltarlo.




Infine, due interventi interessanti, uno di Lorenzo Rossi su Cineforum e uno di Goffredo Fofi su Internazionale

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