Reality - Matteo Garrone

Reality - Matteo Garrone - 2012 - 115'

Come per il film di Ciprì, anche per l'uscita del nuovo film di Garrone eravamo non dico ansiosi, ma molto curiosi sicuramente. Le reazioni: io credo sia un ottimo film, non un capolavoro - ma non era un capolavoro nemmeno Gomorra -, ma un ottimo film. Tutti gli altri che erano con me quella sera, altre cinque persone, si sono annoiate a morte. Due di loro lo hanno giudicato un pessimo film.
Si poteva fare di più, essere più cattivi, e il film risente di questa leggerezza programmatica, ma resta un film che sfugge a tutte le interpretazioni facili, che  rispetto a Gomorra torna indietro ai temi che Garrone aveva cominciato a esplorare con L'imbalsamatore e con Primo Amore, che lascia molte speranze per il futuro di Garrone, nonostante il film in sala abbia fatto pochissimo, perché nella carriera di un regista come Garrone questo film poteva essere un suicidio, che conferma una direzione di regia sempre improntata alla massima aderenza alla realtà come pratica di lavoro - Garrone gira in senso cronologico, che non è una novità assoluta, ma che denota una certa attenzione ai metodi produttivi e un'attenzione anche maggiore agli attori e ai loro tempi -, ma che si sta indirizzando verso un gusto di ripresa e di fotografia più complesso e maturo.


Reality come già ampiamente espresso da chiunque, non è un film sul grande fratello, né sulla televisione. Non è però neppure un'analisi sullo stato di salute del popolo bersagliato dagli stimoli della società dei consumi. Più semplicemente, e qui sta il ritorno al passato alle ossessioni personali di Garrone, è un film sulla realtà personale, sulla perdita di coscienza, sulla trasformazione della realtà dietro ogni occhio che la guarda. Luciano si sarebbe perso comunque, anche senza grande fratello. Questi sono personaggi in cerca di un'ossessione che li liberi dalla mancanza totale di prospettive. La frase paradigmatica del film, e che purtroppo non ricordo perfettamente, è nel dialogo tra Luciano e la moglie; lui dice più o meno: è la prima volta che mi sento vivo, che ho un obiettivo, che mi danno una possibilità. Evidentemente non si tratta più del grande fratello, né della televisione. Tutt'al più la televisione si pone come ulteriore centro di genesi delle irrealtà, ma è un discorso vecchio, e che nel film si limita a essere lo spunto per raccontare una storia che parla d'altro. In questo senso tutto il film potrebbe essere un sogno, potrebbe essere non esistito mai. La piazza, quella sì televisiva, prima ancora che teatrale, da trasmissione di Magalli quasi; la piazza è da sogno, tutto ha un senso vago di incubo febbricitante. E tutto, anche come sogno, avrebbe comunque coerenza.


Garrone, in una delle interviste rilasciate per promuovere il film, parla de L'inquilino del terzo piano di Polanski come di un riferimento; un altro, se ne parla  in un numero del Venerdì di Repubblica, è il libro Le Metamorfosi di Ovidio; ma il tema della perdita di realtà non è nuovo - e infatti Garrone sta pagando molto al botteghino questa scelta -, i primi film che mi vengono in mente sono L'enfer, Taxi Driver, Aguirre furore di Dio, ma ce sono mille altri. Quello che è interessante in Reality è piuttosto come un tema dalla natura angosciante venga affrontato in un contesto strutturalmente molto simile alla commedia. Dopo la grandiosa scena del matrimonio - ne hanno parlato tutti, perché è un pezzo di bravura incontestabile e stupefacente - tutti i personaggi si spogliano (e questo potrebbe confermare la dimensione onirica di cui prima) e entrano in una condizione che non è fuori dai personaggi ma è per così dire extra-personaggio. L'unico personaggio che acquista nel film una dimensione umana autentica è Enzo, il vincitore della - nel film - passata edizione del grande fratello. Enzo è l'unico legame effettivo con la realtà del film, e infatti è un personaggio destabilizzante.


Durante il film ci sono dei riferimenti a Pinocchio, quelli veramente superflui e pretestuosi. Oltre tutto, di Pinocchio non se ne può più, basta. Il grillo-telecamera è il punto più basso del film. E Luciano-Arena di Pinocchio non ha fortunatamente nulla; l'equivoco potrebbe essere nato, ma è una mia supposizione, dalla maschera di Arena, che non è - perché è molto più complessa - ma può essere interpretata come quella di un Totò postmoderno. Totò rimanda ad alcune figure archetipo tra cui Pinocchio, ma è un gioco senza vincitori e senza grandi possibilità creative. Chi vuole inquadrare Arena nel ruolo forzato del nuovo Totò, iperrealistico e muscoloso, postmoderno e perdente fa poco più che un esercizio intellettuale, inutile al cinema e dannoso soprattutto ad Arena.


L'altro tema forse di troppo è quello religioso, non perché non sia vero o non sia giusto, ma perché è risaputo, e dilata, diluisce il crescendo di tensione del film che invece è costruito molto bene. Garrone ha specificato che il film si basa su una storia vera, e che un cugino molto religioso esiste davvero. Ma questo evidentemente non basta, non è mai bastato a rendere credibile o meglio necessario un personaggio, un intreccio, qualcosa al cinema. Molto meno fastidioso di Pinocchio ma ecco, non necessario. 
Chi si diverte, io tantissimo, a fare le classifiche e i duelli virtuali tra registi, per me non può non segnare punto a Garrone e zero a Sorrentino, il cui ultimo film - This must be the place - è di gran lunga inferiore. 



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