The wolf of wall street - Martin Scorsese

The wolf of wall street - Martin Scorsese - 2014 - 180'



Chi si aspettava che Scorsese girasse un film sul capitalismo non conosce Scorsese e non conosce bene neppure Hollywood. Su Le parole e le cose si cerca di spiegare anche questo. 


 Il primo pensiero, finita la visione, è di aver assistito alla proiezione di Quei bravi ragazzi, vent'anni dopo. Ho controllato e mi sono sbagliato, gli anni sono quasi venticinque. Il che significa quasi un quarto di secolo. La struttura del film è talmente simile da aver scontentato tutti gli spettatori non esperti che ho consultato e che avessero già visto Quei bravi ragazzi. L'idea nello spettatore è: bello, ma l'ho già visto. E c'è lo stesso protagonista che fa le facce - ma Di Caprio di più, anche se si riscatta in un paio di scene memorabili -, ci sono i caratteristi, l'universo femminile esiste solo in chiave borghese e cattolica, l'ascesa e la caduta sono autentiche, meno interiorizzata è la redenzione. Né Belfort né Henry Hill sono davvero pentiti, che è una delle chiavi del successo e della bellezza dei film di Scorsese: non sono realmente pentiti perché non possono farlo e questo non li rende dei personaggi più buoni o dei criminali più feroci. Il punto è che non possono farlo perché sono inseriti, fanno intimamente parte di un sistema che non prevede il pentimento, prevede la rassegnazione al fallimento, tutto un altro sentimento. Belfort ci prova, sembra poter riuscire, in un certo senso riesce, quando lo arrestano è perché ha tirato troppo la corda. Insegnerà ad altri la stessa tecnica di vendita perché la storia si possa ripetere. La differenza sostanziale con Quei bravi ragazzi - e forse l'unica, vera riflessione di Scorsese sul capitalismo e sulla sua natura criminale - è che Di Caprio è interno al sistema in un modo diverso da Ray Liotta.
I gangster non solo sono tra noi, come ai tempi di Goodfellas, ma sono una parte costitutiva della società e vogliono essere trattati come tale, non ci stanno più a essere trattati da gangster.


Tecnicamente il film è perfetto, nonostante la sceneggiatura indugi un po' troppo in una prosa che cerca costantemente la frase a effetto. Pensare a Sorrentino e al suo percorso, soprattutto alla luce del suo successo americano, è stato inevitabile: Sorrentino è bravo, è bravissimo ma deve crescere prima di poter girare e montare come Scorsese (e Schoonmaker). Confrontate l'utilità delle riprese complicatissime di Sorrentino ne La grande bellezza e quella delle riprese complicatissime di Scorsese in questo film. Siamo di fronte, in entrambi i casi, a dei virtuosismi; con una sola differenza: le riprese di Scorsese servono. Hanno un significato narrativo, a volte un significato metacinematografico, come quest'altro articolo su doppiozero mi fa notare, in ogni caso sono il frutto di una scelta non solo stilistica ma drammaturgica. Confrontate anche l'uso della musica e la libertà che si permette Scorsese - molta più libertà di quanta se ne sia mai concessa Sorrentino, in Wolf of wall street siamo oltre la paraculaggine, si arriva a una sorta di dichiarazione parodistica - senza mai fare l'occhiolino allo spettatore, senza ricercare la complicità affettuosa e borghese che Sorrentino ricerca in ogni inquadratura, in ogni canzone. Scorsese costruisce una colonna sonora oltre i cliché tenendo aperti gli occhi e dichiarando le sue intenzioni.
Anche la voce fuori campo segue lo stesso percorso e ricalca, ancora, Quei bravi ragazzi. Se si pensa a La grande bellezza e ai monologhi di Servillo, al suo ingresso in scena, ci si rende conto che siamo di fronte a due categorie di scrittura che si vorrebbero simili ma che sono ancora molto lontane, nonostante, ripeto, questa sceneggiatura non sia tra le migliori dei film di Scorsese perché è ammiccante, con stile ma è ammiccante.
Per carità, non è mica una gara, ci mancherebbe. Ma a volte la mancanza di umiltà di Sorrentino fa scrivere di queste cose.


 Chiunque abbia lavorato in un call center, chiunque, per i motivi più imprevedibili che di solito ti portano a fare una cosa del genere, abbia provato a vendere i prodotti più improbabili e le sole più devastanti, credo abbia avuto la pelle d'oca guardando le tecniche di vendita di Di Caprio e soci: sono esattamente le stesse, nonostante la patina hollywodiana.
Ci insegna più questo film sulla vita di un venditore - di qualsiasi cosa, dalle storiche enciclopedie agli elettrodomestici, dai telefoni alle assicurazioni, fino ai libri che arrivano direttamente a casa - che l'operazione strappacuore di Virzì di qualche anno fa. Tutta la vita davanti e troppo, davvero troppo, in un solo film che alla fine non racconta quasi niente. 
Chiudo con (quasi) la stessa prima immagine, stavolta con Scorsese.


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